Giuseppe Acchiappati

Acchiappati Giuseppe

Padre GIUSEPPE ACCHIAPPATI

(Docente di Religione dal 1929 al 1934)

 

Nacque a Pisogne il 13 novembre 1890. La sua vocazione religiosa si manifestò presto. A dieci anni, dopo una Messa solenne, era rimasto lunghe ore sotto un banco della chiesa a fissare incantato l'altare addobbato a festa. Interruppe gli studi per la guerra '15-'18 alla quale partecipò come motociclista. Si preparò quindi al sacerdozio assieme a Giovan Battista Montini che poi diventò Papa Paolo Sesto e gli rimase sempre amico. Ancora assieme a Lui, nel 1920 celebrò la prima Messa. Entrò, nel 1926, nella Congregazione dei Padri filippini, alla Pace di Brescia.

Fu il nostro primo insegnante di Religione, dal 1929, quando, in seguito al Concordato fra Stato e Chiesa, fu introdotto questo insegnamento nelle scuole statali.

Oltre alle lezioni di Religione, che impartiva anche all'oratorio della Pace, Egli costituì il primo piccolo clero che decorava e serviva il rito liturgico. Le sue liturgie incantavano. Lui non aspettò la riforma per ascoltare in materia liturgica la «creatività» della sua fede e del suo grande gusto. Quel «piccolo clero» fu il modello al quale si uniformò in seguito ogni parrocchia: tunica di lanina color panna, bande di velluto rosso cadenti dalle spalle.

Padre Acchiappati era sacerdote tutto stile, nel ministero, nei rapporti umani, nella cura personale; che si recava in Francia, a predicare in francese, in perfetta tenuta da «clergyman». Sapienza e convincimento sapeva trasfondere profondamente nelle anime dei giovani.

Sacerdote d'avanguardia che accompagnava sui campi di neve, sportivamente ed impeccabilmente equipaggiato, gruppi dei suoi studenti, dopo aver celebrato la Messa dello sciatore. Ciò negli anni Venti, cioè nei primordi di tale sport. Nel 1934 si trasferì a Torino ove rimase circa un anno. Quindi fu a Genova nel convento della Chiesa di San Filippo, responsabile della comunità filippina. Durante la guerra ultima, nascose nel suo convento ebrei e perseguitati politici. Visse anche a lungo con i partigiani. Quindi si trasferì a Bosisio Parini (Como) come Assistente alla «Nostra Famiglia». Egli accettò, per tutta la vita, l'emigrazione, come prezzo inevitabile di una libertà sempre difesa in modo quasi selvaggio. Adorava gli amici, aveva il culto dell'amicizia, ma non volle mai essere legato a nessuno in modo particolare. Solo negli ultimi anni si scelse volontariamente dei «padroni»: i piccoli subnormali de «La nostra famiglia» a Ponte Lambro, a Bosisio Parini, a Erba. Con loro era veramente se stesso, cioè un fanciullo fra i fanciulli, pieno d'allegria e di fantasia. Ma per gli adulti, signorine ed altri collaboratori, fu, all'occorrenza, severo ed esigente.

Egli preferì sempre gli emarginati, anche se per natura era attratto dalla grande cultura, dalla aristocrazia e dalla borghesia. Era ricco di libertà quanto di fantasia. A volte distratto perché la sua fantasia gli offriva sempre «un altrove» a dove si trovava. Sempre in moto fra un luogo e l'altro, si fermava soltanto all'estate per un assoluto ritiro, perfettamente autosufficiente, nella sua baita montana d'Antagnod.

Le sue prediche, calde, fantasiose, squisite, a volte sconvolgevano i fedeli. Il suo volto, così arguto e luminoso, il suo vestire, sempre con una virgola di candida civetteria «francese», il suo incedere a falcate, e quella mano aerea che spesso diceva più delle parole, ricamando l'aria...

Uomo di esigente e vasta cultura, amico degli intellettuali e «servo degli scugnizzi», non ci lasciò scritti.

Per lui la parola, quella dell'uomo e quella di Dio, era letteralmente «irripetibile».

A Bosisio Parini, il 30 maggio 1970 si celebrò la sua Messa d'oro. Fu definito, ottantenne, «un vecchio che ha sempre vent'anni», il vecchio unico nel suo genere, l'amico imprevedibile ed affascinante, l’uomo di fede e di coraggio, il lieto zingaro del buon Dio, soprattutto il servo dei piccoli, l'uomo festoso che, più invecchia, più sa sedurli e rallegrarli, consolarli e farli sognare.

Pagò sempre in contanti la libertà.

Non volle favori né protezioni di alcun genere. Già vicino alla morte, ricevette da un vecchio amico, l'esortazione a «ubbidire ai superiori e parenti», nel senso di curare meglio la sua salute. Rispose: «Ormai non riconosco né superiori, né parenti».

Passò a miglior vita il 9 settembre 1972, dopo mesi di dolorosa degenza in clinica. Riposa nella tomba di famiglia del Cimitero di Pisogne.

(Dal Giornale di Brescia del 24 dicembre 1972 e da scritto di Fra Nazareno Fabbretti, Gazzetta del Popolo 30 settembre 1972).