Intervista al prof. Giulio Toffoli

INTERVISTA AL PROF. TOFFOLI

a cura degli studenti  MARTA BURATTI E ALESSANDRA TRISCHITTA  della classe 3D

Prof. Toffoli

 

BUONGIORNO PROFESSOR TOFFOLI: COME E’ NATA L’IDEA DI SCRIVERE UN LIBRO SULLA STORIA DEL CALINI? 

Verso la fine della mia carriera di insegnante, dopo aver passato lungo tempo in un altro liceo scientifico della città, sempre filiazione del Calini, ovvero il Copernico, un collega di filosofia, l’amico Lorenzo Manara, un giorno mi ferma e mi dice: “Ma tu lo sai che esiste un archivio in questa scuola? Sei forse la persona che può essere interessata a vederlo”. Allora ci siamo avventurati nei sotterranei del Calini e siamo arrivati in una specie di antro dove, fra mobili rotti, vetri infranti e un sacco di tavole scientifiche arrotolate, erano ancora conservati una certa quantità di faldoni con tutta la documentazione amministrativa dal 1930 fino al 1950. Oltre a questo, giaceva abbandonato un abbondante materiale estremamente vario, registri personali dei docenti, verbali di scrutini, registri dei collegi docenti. Iniziando a leggere quei documenti mi sono per così dire innamorato di quelle vecchie carte. Col passare degli anni mi ero inoltre convinto che l’intera comunità scolastica dovrebbe farsi carico di una presa di coscienza della propria storia e delle contraddizioni che l’hanno di volta in volta segnata. In questa prospettiva mi sembrava estremamente interessante cercare di realizzare un lavoro di indagine approfondita sulla storia della istruzione nel nostro paese. In particolare, si trattava di mettere a fuoco alcuni degli snodi fondamentali, verificatisi proprio in quel trentennio e che hanno lasciato una lunga e pesante eredità. Mi sono insomma convinto che si potesse considerare, almeno in parte, la storia del Calini come un modello nella evoluzione della scuola italiana fra il mondo liberale prefascista, il fascismo e la repubblica.

 

CHE TIPO DI IMPOSTAZIONE HA DATO ALLA SUA RICERCA E PER QUALI ASPETTI SI DIFFERENZIA DA PRECEDENTI PUBBLICAZIONI SULLA STORIA DEL CALINI?

Si trattava di vedere, seguendo il modello storiografico della scuola francese delle Annales, gli elementi di permanenza e quelli di mutamento tra le varie fasi storiche, perché solo in questo modo si può entrare davvero a fondo nella vita della scuola. Naturalmente, c’erano già altri libri sulla scuola, ma mi sembravano sempre insoddisfacenti, in particolare per via di una impostazione che mirava ad enfatizzare le peculiarità di ciascuna esperienza più che a descrivere con obiettività le caratteristiche di un percorso comune. Per parte mia, desideravo scrivere un testo nel quale fossero i documenti a parlare. Il rischio di un’opera siffatta, ponderosa ed estremamente ricca di documentazione, è però quello di mettere in crisi la resistenza fisica del lettore. Chi è interessato alla storia della scuola italiana, e vuole leggere un’opera scritta al di fuori di filtri ideologici di qualsiasi tipo, penso che possa trovare, nell’opera che ho elaborato, una ricostruzione abbastanza onesta di ciò che si è verificato. Dalla lettura di quest’opera vedrà emergere sia alcuni aspetti francamente poco lodevoli, sia aspetti che rivelano la presenza di una grande serietà professionale e di una encomiabile dedizione al lavoro.

Mi sono proposto di indagare la storia del Calini senza soffermarmi sui singoli personaggi; per esempio ho cercato di evitare di esaltare i casi di studenti che sono poi diventati degli accademici, imprenditori o in ogni caso figure di un qualche rilievo sociale. Penso infatti che la scuola superiore non debba puntare a creare “personalità di successo”, non è la sua funzione. La scuola superiore, oltre a fornire un ragionevole bagaglio di conoscenze, deve cercare di formare il cittadino, quindi deve favorire la crescita, nel modo migliore, di quei principi di democrazia, rispetto della diversità e di reciproca tolleranza, che dovrebbero essere il fondamento di ogni relazione umana. Poi ognuno degli studenti percorrerà la sua strada, in cerca delle risposte alle proprie fantasie e ai propri desideri, diventando in qualche caso uno stimato professionista o un celebre accademico, ma soprattutto, nel successo come nel fallimento, un cittadino onesto e capace di portare la propria piccola pietra allo sviluppo comune.

 

PROFESSORE, CHE SIGNIFICATO HA AVUTO PER IL CALINI L’ETÀ FASCISTA?

 

Forse conviene iniziare sottolineando che, per una serie di diverse contingenze, la mia attenzione si è rivolta solo ai primi tre decenni di vita del liceo.

Il Calini nasce, come tutti i licei scientifici italiani, che allora erano poco più di una trentina, nel settembre del 1923, all’interno di un disegno riformatore che è noto come riforma Gentile. È bene chiarire che Giovanni Gentile – uno dei più noti filosofi italiani dell’epoca - si presenta nel 1923-24 come politicamente indipendente, per cui nel momento in cui assume la carica di ministro della pubblica istruzione non si dichiara esplicitamente fascista.

La riforma Gentile è l’esito finale di una serie di precedenti tentativi di riforma che risalgono fino alla fase prebellica, ovvero a prima del 1915. La classe dirigente liberale italiana era da tempo cosciente del fatto che il modello scolastico implementato nel 1859, e dovuto al lavoro del ministro Gabrio Casati, non fosse più funzionale allo sviluppo del Paese. L’Italia era infatti rimasta un Paese piuttosto arretrato, caratterizzato da un alto tasso di analfabetismo e dalla presenza di una ristretta élite di persone istruite, a livelli non paragonabili a quelli degli altri Paesi sviluppati d’Europa, e tali da rendere difficile il decollo di una economia moderna.

Poco prima della costituzione del governo di Mussolini – il 31 ottobre del 1922 – e della sua decisione di scegliere come Ministro della Pubblica Istruzione un indipendente come Gentile, questo stesso incarico era stato ricoperto da Benedetto Croce – l’altra grande figura di filosofo italiano della prima metà del XX secolo – il quale, a sua volta, aveva avviato un tentativo di riforma che però era stato abbandonato a causa di una serie di insuperabili resistenze. Forse è il caso di notare per inciso che una caratteristica significativa e ricorrente della nostra storia è che in Italia qualsiasi tentativo di riforma della scuola si è sempre scontrato con forti resistenze conservatrici.

È in questa prima fase di governo di Mussolini, una fase che rimane pluripartitica e che non ha assunto ancora il volto di una dittatura, che Gentile assume la carica di Ministro della Pubblica Istruzione. Il suo è un compito preciso: rinnovare la scuola. Ristrutturare una istituzione importante come la scuola comporta una chiara visione politica. La riforma Gentile si articola sia in un rinnovamento amministrativo - la scuola è anche un’immensa macchina burocratica - sia in un rinnovamento culturale, tramite la scelta di nuovi contenuti che costituiscano l’identità culturale di un popolo, sia, infine, attraverso l’organizzazione di un sistema di reclutamento di nuovi insegnanti, che sappiano essere all’altezza delle richieste riformatrici.

A questo livello può venire naturale domandarsi: la riforma Gentile si può considerare senza mezzi termini una riforma fascista? Mussolini afferma chiaramente più volte che questa riforma rispondeva pienamente ai disegni culturali del fascismo.

Gentile, in modo meno reciso, afferma chiaramente che, almeno per quanto riguarda gli istituti superiori, la sua è una scuola per pochi capaci! La sua riforma è destinata solo a coloro che hanno le capacità intellettuali per seguire un corso di studi superiori. La sua è una scuola elitaria perché l’accesso al sapere è naturalmente riservato solo a coloro che hanno le qualità e la volontà per acquisire un sapere di alto profilo. Superata la fase elementare, per questa élite viene disegnato un percorso imperniato sul liceo classico e su quello scientifico di nuova istituzione, che sono le strade d’accesso privilegiate all’università. Accanto ai licei la riforma conserva altri due istituti, quello magistrale, destinato a formare insegnanti per le scuole elementari, e quello tecnico, che aveva la tradizionale funzione di formare tecnici e artigiani che potessero sostenere, in condizione subordinata, lo sviluppo tecnico-economico del paese.  

Ben diverso è invece il discorso per quanto riguarda la scuola elementare. Visto che l’Italia rimaneva un paese con un altissimo tasso di analfabetismo, si trattava di fornire risposte alla crescente richiesta che tutti i bambini, al di là della loro condizione sociale e del loro destino produttivo, avessero almeno una formazione di base tale da consentirgli di accedere ai rudimenti dello scrivere e del leggere.

Possiamo dire che questi sono i due perni della riforma del Gentile.

Il punto su cui si è sviluppato nei decenni un dibattito molto ideologico e senza fine è quanto la riforma Gentile sia stata una riforma che rimaneva nel complesso nell’alveo della tradizione liberale e quanto invece contenesse tutti gli elementi dell’ideologia totalitaria del fascismo.

Ogni riforma di ampio respiro, come quella di Gentile, è inevitabilmente la sintesi di una serie di scelte di carattere politico. A questo proposito, nel volume sulla storia del Calini ho cercato di evidenziare la pluralità di posizioni che emergono già dopo l’approvazione della legge di riforma e che vedevano, nonostante l’affermazione di Mussolini che quella di Gentile fosse “la più fascista delle riforme”, reazioni molto differenziate sia sul fronte liberale sia su quello fascista.

La scuola è stata per il fascismo una partita fondamentale poiché coinvolgeva non solo scelte culturali ma anche scelte di natura sociale, in particolare di inclusione o di esclusioni di settori del ceto medio da una aspettativa di miglioramento della condizione sociale. Ciò ha fatto sì che già poco dopo la promulgazione delle leggi di riforma sia iniziato un lavorio di revisione a scadenza più o meno biennale che non si è più fermato. È davvero interessante vedere come durante quel ventennio sia stata elaborata una serie di continue rettifiche che, pur non mutando lo spirito di fondo della riforma, avevano la finalità di creare una scuola che rispondesse meglio al bisogno di creare una società omogenea, ispirata all’ideologia del regime ma anche attenta alle richieste delle diverse classi sociali. Quanto questo disegno si sia effettivamente realizzato è invece un altro discorso. Certo, il fatto che proprio sul finire degli anni Trenta e quando all’orizzonte soffiavano sempre più forti i venti di guerra,  in Italia il ministro Giuseppe Bottai facesse approvare un nuovo disegno di riforma, o se si vuole di revisione radicale della riforma Gentile, la cosiddetta “Carta della scuola”, è segno che probabilmente il disegno di realizzare una scuola integralmente fascista era tutt’altro che compiuto.  

 

LE LEGGI RAZZIALI DEL 1938 HANNO COLPITO ANCHE STUDENTI O INSEGNANTI DEL CALINI?

 

Sulla questione della discriminazione razziale, legata alle tragicamente note leggi razziali del 1938, il Calini può costituire una interessante pietra di paragone. Proprio al Calini infatti abbiamo la possibilità di confrontare due diversi comportamenti dell’istituzione nei confronti di due componenti della comunità scolastica e ricordare due diversi destini.

Il primo caso riguarda la professoressa Pia Treves Sartori. Come indica il suo cognome, Treves, la signora era discendente da una famiglia di origini ebraiche. La sua vicenda umana è particolarmente interessante; ella infatti si laurea in lettere classiche a cavallo del secolo, quando le donne che accedevano all’università erano una ristrettissima élite, è una tra le prime femministe italiane ed è anche una fervente cattolica. Quando il nuovo regime fascista prende il potere non ha difficoltà ad aderire al partito riconoscendosi nella sua linea politica. Negli anni venti e trenta svolge una intensa attività intellettuale, fra l’altro come traduttrice e come studiosa di musica, ed è sempre in prima fila contribuendo alle attività didattiche organizzate dal partito e dall’Organizzazione Nazionale Balilla. Nell’anno scolastico 1938-39, nonostante tutte le sue benemerenze, viene dimessa dall’insegnamento in quanto di razza ebraica. Quando il preside Ferruccio Azzini deve stilare una nota informativa su questa docente, egli afferma che la Treves Sartori era di fede ebraica, mostrando, credo si possa ben dire, un cedimento ai principi della sua dirittura morale, in quanto egli sapeva perfettamente che la professoressa era una cattolica praticante. Né al Collegio docenti, in cui viene nei fatti ratificato il pensionamento anticipato della professoressa, si leva una minima voce, non dico di protesta, ma anche semplicemente di dubbio. La professoressa Treves Sartori è però in qualche modo fortunata; infatti dopo l’8 settembre 1943 trova rifugio in un monastero femminile di Milano e né il marito né i figli hanno a soffrire nei duri venti mesi del regime di Salò. Dopo la fine della guerra la Treves Sartori riprende la sua vita dedicandosi soprattutto all’attività di traduzione.

È evidente che emerge qui uno dei corni del problema, cioè che quando un regime autoritario emana determinate leggi liberticide, ove non si abbia un temperamento particolarmente “eroico”, diventa necessario in qualche modo adeguarvisi, se non si vuol perdere il lavoro e con esso la possibilità di mantenere la famiglia. Chiaramente nel collegio docenti del Calini non vi erano personalità “eroiche”.

L’altro caso, forse più noto, è quello di uno studente. Nel settembre del 1939 si presenta al Calini la madre di un giovane studente che aveva frequentato il primo biennio superiore – si ricordi che il liceo all’epoca era quadriennale – al liceo classico Arnaldo, dal quale, in quanto ebreo, era stato espulso. Si tratta di Alberto Dalla Volta, l’Alberto di cui parla Primo Levi nel suo celebre libro Se questo è un uomo. Una lapide dedicata ad Alberto Dalla Volta si trova da qualche anno all’ingresso dell’aula magna della nostra scuola. Di fronte ad Alberto Dalla Volta il preside Azzini assume un comportamento diverso e chiaramente in opposizione con le direttive del regime. Accoglie questo ragazzo, che dunque entra nella vita della comunità scolastica senza problemi. Sui documenti ufficiali a volte figura come “Alberto Volta”, altre volte come “Alberto Volta detto Dalla Volta” senza che si verifichino ripercussioni di sorta.  Alberto finisce il secondo biennio al Calini, conseguendo il diploma senza problemi; poi si iscrive all’università di Parma, ed è allora che le cose per lui diventano tragiche. Nel 1943 nel tentativo di salvare il padre, arrestato dai repubblichini, si presenta nella caserma dove il padre era detenuto, nel disperato tentativo di ottenere uno scambio di persona e invece viene a sua volta arrestato. Padre e figlio poco dopo salgono su un vagone piombato con direzione Auschwitz.

Alberto, studente del Calini, era particolarmente attivo nella vita della scuola. Tra il ’40 e il ’41 furono pubblicati nel nostro istituto tre numeri di un giornalino scolastico. Ebbene, uno degli articoli è firmato Alberto Dalla Volta. Dunque, possiamo dire che come studente del Calini Alberto Dalla Volta non patì nessuna emarginazione.

A questo punto, sintetizzando, possiamo osservare che il preside Azzini ha avuto – nei due casi appena ricordati - due comportamenti speculari, perché rammentiamoci che quando Alberto si iscrisse al Calini non solo erano già in vigore le leggi razziali, ma la stretta repressiva era diventata particolarmente forte, il ragazzo era già stato allontanato dall’Arnaldo e non mancavano mai zelanti delatori, che però in questo caso non si sono palesati.

 

HA INCONTRATO DELLE DIFFICOLTÀ NELLA COMPOSIZIONE DEL LIBRO?

 

La difficoltà principale è stata quella di trovarsi improvvisamente di fronte ad una marea di carte. Quando hai tante carte tra le mani, devi prenderle, leggerle e viverci un po’ insieme. È stato un lavoro lungo, reso un po’ più complicato dal fatto che è stato anche rapsodico. È difficile ricordarsi tutti i documenti, ma anche cercare di interpretarli in maniera corretta. Nelle note del volume ho inserito molte indicazioni che riguardano ogni singolo documento presente nell’archivio della scuola, in modo che chi lo desideri possa verificare ogni singola parola.

Posso dirmi soddisfatto e insieme divertito dal risultato che ho ottenuto. Certo non tutto è andato come desideravo. Speravo di trovare un po’ più di immagini di quegli anni, fotografie delle classi e di altri momenti particolarmente significativi della storia dell’istituto. Sono sicuro che le facevano; per esempio come pensare che non siano state scattate delle fotografie in occasione dell’inaugurazione di questa sede di via Monte Suello? Ma poco o nulla è sopravvissuto o almeno io non sono riuscito a trovarlo. Altri forse avranno più fortuna!

Va aggiunto, peraltro, che la sede originaria del Calini, quella dove si tenne la prima lezione nell’ottobre del 1923, sorgeva in piazza Tebaldo Brusato. Nel libro ho seguito passo passo la storia di quegli esordi, documentando in modo dettagliato la battaglia continua da parte dei primi presidi per avere una sede più dignitosa.

 

CHE IDEA COMPLESSIVA SI È FATTO DEL CALINI DI QUEGLI ANNI?

Mi viene da aggiungere che il Calini dei primi decenni, come emerge dai documenti, è stato un tipo di scuola che si è un po’ perduto col tempo. Per esempio, gli insegnanti di allora avevano un particolare amore per la scuola e la professione di insegnante in alcuni casi travalicava i limiti della normale attività di lezione. Tra i documenti ho trovato fra l’altro il verbale di un collegio dei docenti nel quale il preside, rivolgendosi ai suoi colleghi, dice loro candidamente: “se la vostra finalità fosse stata quella di fare soldi, non avreste fatto gli insegnanti”. Il problema è quello dell’amore per la propria professione. C’era per esempio un insegnante di fisica e matematica che organizzava delle serate astronomiche; alcuni studenti particolarmente interessati, compresa qualche ragazza, che però doveva essere accompagnata, si recavano in un terrazzino destinato alle osservazioni astronomiche e qui Angelo Ferretti Torricelli, spinto dalla sola passione per il sapere e per la sua divulgazione, li guidava all’osservazione del cielo stellato e parlava loro dei pianeti e della struttura dell’universo.

 

PER CONCLUDERE, CI PERMETTA UNA DOMANDA PERSONALE: COME HA VISSUTO LEI GLI ANNI DA INSEGNANTE QUI AL CALINI?

 

Era evidente che si trattava della fase conclusiva della mia carriera, quindi ho cercato di viverli nel modo più dignitoso possibile. Si trattava di un tramonto anzitutto in senso fisico e insieme di un tramonto di una carriera che, come tutte le carriere, era destinata prima o poi a concludersi.

Quando ho iniziato a insegnare facendo le mie prime supplenze, intorno al 1976, avevo 25 anni e gli studenti con cui mi trovavo a interagire erano giovani che avevano dai quindici ai vent’anni. Al di là del fatto che la scuola della fine degli anni ’70 non è paragonabile a quella di oggi, allora mi era facile costruire con loro un dialogo, non c’era bisogno di rifarsi a Rousseau. Era quasi naturale per noi ricorrere, come integrazione a tematiche anche alte della storia e della letteratura, alla cultura pop. Per me come per loro i Doors e Jim Morrison, i Beatles come i Rolling Stones, Guccini, i Nomadi e De André erano un retroterra comune su cui confrontarci e che ci appassionava. Non mancavano occasioni in cui si continuava a dialogare ben oltre i limiti dell’orario di lezione. Con il passare degli anni il problema dell’interazione con i giovani che avevo di fronte è diventato sempre più arduo da affrontare. Si trattava di elaborare un percorso che rispondesse nel modo migliore alle loro esigenze, tentando di stimolare la loro attenzione e di creare quell’amore per la cultura contro cui tutto congiurava, soprattutto i nuovi valori legati al primato del successo e del consumo che si stavano affermando in modo sempre più forte. Lo studente del XXI secolo mi appariva sempre più distante e facevo fatica a costruire un dialogo con un universo dominato dai telefonini e dal primato del selfie che tutto logora in uno stimolo al consumo compulsivo.

La comunità del Calini quando sono arrivato era accogliente, vivace e nel complesso all’altezza delle aspettative di chi aveva lavorato per fondare questo istituto nel lontano 1923. Solo, la mia prospettiva stava rapidamente mutando ed allora ho scelto di compiere un ultimo gesto di amore per la scuola e per una professione che mi sembra ancora oggi una fra le più belle che si possano fare immergendomi nel suo passato.

Che dire di questo percorso? Dopo un decennio di lavoro ne è uscito il volume che potreste avere fra le mani. Chi di voi vorrà, potrà seguirmi in questo deep diving, basta un poco di coraggio e molta curiosità. Da parte mia posso solo assicurarvi che alla fine qualche cosa degli arcani di questo paese vi apparirà più chiaro. Buon viaggio.