Raffaele Spiazzi

Raffaele Spiazzi

RAFFAELE SPIAZZI

Ex studente del Liceo “A. Calini”

Genova, Luglio 2023

“Pronto, sono un insegnante del Liceo Calini di Brescia, parlo con il dottor Raffaele Spiazzi?”

“Sì, certo, sono io. Dica pure…”. 

Eccoci, mi dico, alla fine mi hanno trovato! Quel mai meglio chiarito disguido che ricorreva nei miei antichi incubi e che avrebbe invalidato il mio esame di maturità è stato infine scoperto e così sono arrivati a me… e ora… non dovrò davvero mica rifare l’esame…!?!

“Grazie dottore. Come saprà, quest’anno ricorrono i 100 anni dalla fondazione del nostro glorioso Liceo e, tra le varie iniziative in corso, stiamo raccogliendo curriculum e storie per proporre una rassegna di ex Caliniani che abbiano lasciato tracce significative… bla bla bla…” 

Ah…! Ma allora è tutto un falso allarme, non devo rifare l’esame di maturità… Il mio interlocutore continuava a parlare ma io, travolto dal sollievo per lo scampato pericolo, non lo seguivo più.   

“Mi scusi, professore – gli dico ricomponendomi –. La sua voce mi è giunta disturbata e per un momento non l’ho sentita. Mi può ripetere e farmi capire meglio, per favore…?”

Brescia, Luglio 1978

Fa caldo, molto caldo. Non mi ricordo il giorno, ma quando stai preparando l’orale della maturità non c’è un giorno della settimana diverso dagli altri. Non c’è sabato, non domenica o lunedì, solo uno studio continuo, scandito dal conto alla rovescia che man mano ti avvicina al tuo momento. Essendo poi state estratte la lettera T e la mia classe, la gloriosa 5^A, come ultima della commissione, a me quell’anno capitava di essere l’ultimo degli ultimi a essere interrogato. Forse l’ultimo di tutto il Calini.

Ricordo più che altro che quella mattina l’avevo presa “comoda”, perché avevo ancora mille cose da ripassare, approfondimenti dell’ultim’ora da fare e mille appunti e spunti e tracce ancora da rileggere. Comoda al punto che qualcuno della commissione, non avendomi ancora visto al liceo, mi aveva fatto telefonare a casa per sincerarsi che mi ricordassi della prova e mi presentassi in tempo. Era ora di andare.

Ci vogliono meno di venti minuti a piedi da casa mia al liceo. Gli argomenti di scelta li avevo pronti:  Filosofia e Tedesco, Henri Bergson e E.T.A. Hoffmann. Argomenti da evitare: Grillparzer e il Biedermeier, non perché non li conoscessi, ma perché li avevo trovati insopportabili e incoerenti con tutto quello che gli avveniva intorno. Insomma, antipatici e reazionari. E, quindi, poco interessanti da studiare. 

In venti minuti di strada fai giusto in tempo a riavvolgere il nastro di cinque anni di vita. I sogni, le aspettative, papà e mamma che a loro volta erano stati “caliniani” – e si tornava indietro agli anni quaranta – la bomba di Piazza Loggia, le assemblee, scioperi e picchetti, il panico delle interrogazioni, i professori da ricordare e quelli un po’ meno, il quadernetto delle caricature, i compagni e le compagne di classe, gli amici, l’università che verrà, i tuoi programmi per il futuro… 

In mezzo, tra Brescia e Genova, un bel pezzo di vita

Raccontare una biografia, la mia biografia, in poche righe e immaginare che qualcuno la legga trovandola interessante, è un esercizio inusuale ma che mi intriga e stimola. Quanto poi al fatto che io abbia lasciato “una traccia significativa nella realtà culturale a livello cittadino, nazionale o internazionale”, o che mi sia “particolarmente distinto in campo lavorativo, sociale, politico, artistico, musicale, culturale in senso lato”, preferisco lasciarlo dire agli altri. 

Da un lato, infatti, c’è la SINTESI, i puri fatti messi in fila. Ci sono io, talentuoso (?) allievo classe 1959, che, acquisita la maturità scientifica, mi laureo brillantemente in Medicina e Chirurgia a Brescia nel 1987, mi specializzo in Igiene a Parma nel 1992 e, nel frattempo, inizio a lavorare presso la direzione sanitaria degli Spedali Civili di Brescia (1991), dirigendovi poi nel tempo la struttura di Controllo di Gestione e Verifica Qualità (1996-2001) e, da Direttore Medico, il Presidio Ospedale dei Bambini (2001-2018). Nel 2018 il trasferimento a Genova da Direttore Sanitario del Gaslini, Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (IRCCS), ospedale tra i più noti e rilevanti a livello nazionale e internazionale dedicato all’assistenza neonatale e pediatrica. In mezzo a ciò, articoli, pubblicazioni, interviste, libri, progetti, realizzazioni… 

E, insieme con me, Margherita (1965), con cui mi sposo nel 1989, i nostri tre splendidi figli, Anna (1992), Luciano (1994) e Alessandra (1997), la passione per l’arte figurativa in tutte le sue espressioni e tecniche, dal fumetto e caricatura alle opere “serie” – in questo “figlio d’arte” di papà Luciano (1930-1988), giornalista e critico d’arte oltre che appassionato uomo di scuola, cantore dell’arte bresciana del secondo novecento – e poi la corsa, compagna e sfogo salvavita da sempre, con quindici (per ora, chissà mai…) maratone nel carnet. E ancora e infine, il rapporto con il mondo del volontariato e della cooperazione nel campo della disabilità, con la partecipazione alla fondazione e alle attività della cooperativa sociale La Mongolfiera di Brescia, dove ancora oggi lavora Margherita. 

Poi c’è l’ANALISI, il racconto di cosa siano stati, ad esempio, diciott’anni di direzione del glorioso “OSPEDALINO” di Brescia, dalla istituzione ex-novo del reparto di rianimazione pediatrica – mission impossible, fu il primo progetto che la direzione di allora mi chiese di portare ad attuazione ancor prima di aver assunto il ruolo di Direttore Medico dell’Ospedalino – all’apertura e completa messa in funzione del Cubo Bianco per le attività dell’Ospedale dei Bambini che erano state in qualche modo trasferite presso gli Spedali Civili in spazi provvisori dopo la chiusura dell’Umberto I in via Vittorio Emanuele a realizzare un vero e proprio ospedale nell’ospedale; alla modernizzazione del nostro essere ospedale attraverso l’accreditamento di tutto l’Ospedalino secondo gli impegnativi standard Joint Commission International o alla sua partecipazione alle attività dell’associazione degli ospedali pediatrici italiani di eccellenza. Diciott’anni di vera e propria palestra di vita, fatta di senso di identità e di appartenenza, di legami profondi con le persone, di ascolto continuo e di costante proposta e ricerca di condivisione su valori, visione e contenuti di un SERVIZIO che alla fine rappresentasse la vera cornice di senso del lavorare insieme, ciascuno per le proprie competenze ma al servizio di un’unica squadra. Momenti belli e momenti più faticosi, ma sempre vissuti insieme. Una competenza e un modello di lavoro con le persone che ho riproposto nella mia successiva esperienza presso il GASLINI, realtà che posso raccontare oggi come sempre più centrale nei processi di programmazione nazionale dell’assistenza ai bambini e alle loro famiglie e con la prospettiva, in pieno divenire, della costruzione di un nuovo ospedale all’altezza dei tempi e la consapevolezza di costituire un rinnovato richiamo per figure di alto profilo ed elevata competenza nelle diverse discipline del sapere sanitario.

Perché se una ricetta c’è per il successo di un’organizzazione di servizio, per il suo saper essere all’altezza delle aspettative del cliente/utente e, più in generale delle persone che con l’organizzazione interagiscono – compresi i professionisti che la compongono – questa passa necessariamente per il governo di tre dimensioni: la capacità di saper far di conto attraverso i BUDGET – che significa sapersi porre e rispettare obiettivi definendo le risorse a ciò necessarie (e in questo l’esperienza di direzione del controllo di gestione è stata per me certamente di grande valore, anche nell’acquisizione della consapevolezza che da solo il budget non basta) – la capacità di dar la giusta attenzione e valore alle RELAZIONI tra le persone, interne ed esterne all’organizzazione e la capacità di governare l’INNOVAZIONE, che sia di processo o sia di rottura, di discontinuità con l’usuale, con quest’ultima, in particolare, a fare la differenza.

E parlando di innovazioni di rottura, un ulteriore ingrediente che da sempre mi accompagna e che spesso ho anche intrecciato – col dovuto e ricercato effetto sorpresa – col mio lavoro è stata la mia INCLINAZIONE ARTISTICA, la mia particolare abilità nel disegno e nell’illustrazione anche, ma non solo, umoristica. Un’attitudine così nasce in genere anche se non necessariamente da un ambiente familiare favorevole, che educa ad un certo tipo di sensibilità. Ho già detto della smisurata passione per l’arte di mio padre, ma se da qualcuno in famiglia ho preso per manualità (e ironia) è stato da mia madre, che ricordo da sempre a giocare con immagini e schizzi per aiutarci a fare i compiti e che la stessa tecnica utilizzava con i suoi allievi anche maggiorenni quando dava ripetizioni di matematica in casa. Così a mia volta son cresciuto con la passione del disegno, che è presto diventata gusto della sfida per la realizzazione “per diletto” di soggetti anche molto impegnativi, esercizi di tecnica da tenere gelosamente per me e per il mio ambito familiare e guai a chiamarli opere d’arte, perché ciò li avrebbe esposti necessariamente al giudizio del critico d’arte che avevo in casa. Accadde così che il mio primo momento di uscita pubblica fu quando, in quinta, iniziai a collezionare e a mostrare in un quadernetto raccoglitore alcune caricature di insegnanti e compagni di classe da me realizzate. Nulla più di un gioco, che tuttavia intrigò e catturò l’attenzione e l’interesse divertito dei miei compagni di classe, ansiosi di vedere e vedersi di settimana in settimana nelle nuove produzioni. Il clou fu alla cena di classe dopo la maturità, quando facemmo trovare come segnaposto per ciascun insegnante la propria caricatura. Chi si riconobbe al volo, chi dovette andare per esclusione, fu comunque un successone, richiedente anche, da parte mia, una certa faccia tosta. 

Caso e destino vollero che, partendo da ciò, l’autunno successivo alla maturità venissi contattato per illustrare, per conto dell'editrice Vannini, un testo di grammatica tedesca per le scuole superiori. Colpa di un mio compagno di classe che andava a ripetizioni di tedesco da un insegnante di Brescia, Carlo Bisin, il quale, guarda caso... stava scrivendo il testo (ricordo il titolo, “Deutsch, eine neue Welt”) ed era in cerca di un illustratore, perché non gli piacevano quelli che la casa editrice gli aveva proposto. Il mio primo lavoro... 

A quella prima commessa ne seguirono altre, via via più orientate verso l’illustrazione scientifica, che mi accompagnarono per tutto il periodo degli studi universitari, consentendomi quel minimo di indipendenza economica, le tasse universitarie, l’auto – la prima una mitica Fiat 850 color delle piastrelle del bagno – il mio primo impianto stereo... Ma, soprattutto, fui presto cosciente che lavorare come illustratore, cosa che mi riusciva comunque piuttosto bene, non mi sarebbe bastato. Sentivo il bisogno di un lavoro che mi ponesse al servizio degli altri, e gli studi di medicina a ciò mi stavano indirizzando, cosciente al tempo stesso di possedere un meraviglioso e unico talento che avrei al bisogno potuto mettere “al servizio del servizio” che volevo dare nella mia vita…    

E fu solo una volta che ebbi superato lo scoglio dell’esame di fisiologia, al terzo anno di università, che mio padre, visti i brillanti risultati che portavo a casa e la costanza con la quale mi dedicavo allo studio, mi rivelò che anche lui da giovane aveva studiato per un anno medicina e superato alcuni esami fra i quali la famigerata anatomia, prima di rendersi conto che non era quella la sua strada e decidere di cambiare completamente indirizzo e corso alla sua vita. Mi disse anche che all’inizio del mio percorso universitario pensava, ma non me lo avrebbe detto mai, che forse avrei dovuto fare dell’arte la mia professione.        

Fedele al mio impegno, ho più volte lasciato che questo mio “talento” facesse incursione nella vita professionale. Ad esempio, proponendo ormai dal 2012 le illustrazioni di copertina della rivista Brescia Medica dell’Ordine dei Medici. O, risalendo nel tempo, scrivendo e illustrando libri, opuscoli, CD di educazione sanitaria e terapeutica (per asma, epilessia, diabete, ecc.) e curando illustrazioni e contenuti del sito web dell’Ospedalino. Immagini per comunicare. E ancora, proponendo una serie di giocosi animaletti come altrettante mascotte per i reparti e servizi. Nel 2004, sempre con una buona dose di faccia tosta (mia e dell’allora direttore generale Mastromatteo) e qualche margine di rischio, regalammo una caricatura formato maxi al presidente regionale Formigoni in occasione dell’inaugurazione del Cubo Bianco. Un paio d’anni dopo, era il 2006, proposi la pubblicazione in un volumetto particolarmente apprezzato delle caricature di tutti i principali personaggi dell’Ospedalino. E di lì in poi per alcuni anni, insieme con illustratori e caricaturisti bresciani riuniti sotto il glorioso marchio dei Pennini Graffianti, partecipai a mostre ed esposizioni in giro per la provincia, oltre che a manifestazioni e sagre dove, per beneficenza, si realizzavano caricature dal vivo. Più di recente, nella mia esperienza genovese, ho partecipato alla ideazione e realizzazione di una splendida serie di murales prodotti da street artist di fama internazionale ad abbellire gli antichi muri e gli scorci del Gaslini. E il cantiere è sempre aperto e la biro Bic all’opera… 

Ma c’è un altro filo rosso che lega i miei anni del liceo con quel che avrei poi realizzato negli anni a seguire, ed è il mio rapporto con la disabilità. La mia coscienza di voler essere medico nasce, infatti, durante un’esperienza di volontariato con ragazzi disabili in compresenza con studenti di pedagogia, promosso dall’Università Cattolica in quel di Vezza d’Oglio. Era l’estate della terza o della quarta liceo, non ricordo con esattezza, ma quell’esperienza di servizio e animazione mi segnò come poche altre, ricordo. Sarei stato medico, mi dissi, e avrei per sempre cercato di proteggere e tutelare i percorsi di vita e di assistenza di questi “eterni ragazzi”. A quella prima esperienza ne seguirono altre per tutti gli anni dell’università. Così, ad esempio, ogni giorno, prestavo servizio come imboccatore all’ora del pasto presso il Centro Spastici di via Nikolajewska, vicino all’università. E d’estate partecipavo ai campi estivi promossi dalla Associazione Amici di Coccaveglie che proponevano esperienze di integrazione per adolescenti insieme con ragazzi e ragazze con disabilità. E poi ancora il servizio civile in una realtà, La Casetta si chiamava, che si proponeva di sperimentare laboratori protetti per disabili dopo l’età scolare con la folle idea che ciò potesse diventare un servizio economicamente sostenibile. Da qui l’idea di spiccare il volo e fondare una realtà cooperativa nuova, che chiamammo La Mongolfiera, allora affiliata all’Opera Don Calabria e con don Mazzi come primo presidente. In quella realtà io curavo, insieme ad una ragazza conosciuta a Coccaveglie e che sarebbe poi diventata mia moglie, il laboratorio di serigrafia artistica. Nel mio ruolo di medico e direttore sanitario poi, un’attenzione particolare a strutturare e mantenere percorsi di accesso facilitati e protetti per i pazienti fragili non avrei mai mancato di darla…

Insomma, tutto si tiene. Un’intrigante e sbarazzina Mongolfiera-Arca di Noè sarebbe poi diventata il logo dell’Ospedalino e mi avrebbe seguito anche a Genova. E se poi ripenso che anche le mie prime esperienze di corsa sulle lunghe distanze in giro per il mondo risalgono a loro volta agli anni del liceo (si correva allora in città la 20 Miglia, trenta e passa chilometri su e giù per la Maddalena e io vi presi parte per la prima volta qualche settimana prima della maturità, vi risparmio i dettagli sul come e in che condizioni la conclusi…), a rivedere il film dei miei anni al liceo ritrovo molte delle piste che poi avrebbero riempito la mia vita. Non ne ero di certo consapevole allora, ma rivedendole oggi a ritroso, quasi sorprendendomi le riconosco tutte. 

Perché è molto facile per un adolescente guardare con distacco e disinteresse a quanto ti propone la scuola come a qualcosa di sostanzialmente estraneo alla propria vita, così come alla vita che vede rappresentata intorno a sé, nei social ma non solo. Come se la scuola non c’entrasse con la realtà e non valesse la pena interessarsene. Anche io ho concluso l’esperienza del liceo – piacevole, certo, per tanti aspetti, ma da “passare oltre” – pensando fosse giunto per me finalmente il tempo di dedicarmi a quello che mi interessava e non più a quello che altri avevano deciso dovessi studiare anche se non serviva a niente… 

Il tempo e le esperienze ci fanno più saggi e rendono giustizia a quel che ti ritrovi dentro e riconosci come tesoro e bagaglio di conoscenze e competenze. Fratture e ricomposizioni producono crescita, continuità nella discontinuità. E ti scopri magari a spiegare ai tuoi compagni di studio con semplicità ed efficacia (aiutandoti con qualche schizzo disegnato a biro) concetti di fisica che negli anni del liceo ti eri convinto di non aver capito e che mai avresti potuto capire. O ti ritrovi a rileggere quei Musil e Kafka che avevi giurato avresti lasciato a prendere la polvere nella libreria di casa. La fatica e la sfida dello studio, l’educazione della persona attraverso l’insegnamento, il dialogo tra conoscenza e sapienza, il confronto con figure “adulte” – gli insegnanti – capaci di lasciare una traccia, un seme nel mio percorso di crescita come persona, questo quel mi sono ritrovato in tasca uscendo dal liceo. E non è poco, credetemi. 

Ah, per chiudere quasi mi dimenticavo. Argomento del mio esame di maturità? Franz Grillparzer e il Biedermeier, ovviamente. Quasi a significare che nella vita non puoi immaginarti di riuscire ad evitare sempre quel che non ti piace, ma devi imparare a cavartela lo stesso… 

E quindi, come da qualche anno ho appreso a dire qua a Genova, buon vento, ragazzi! 

Raffaele Spiazzi